Nella riunione della Giunta Esecutiva di giovedì 30 marzo 1922 la Lega del Sud della Confederazione Calcistica Italiana (una sorta di SuperLega “ante litteram”, a livello nazionale, a cui avevano aderito ventiquattro grandi e medie squadre settentrionali e quasi tutte quelle centromeridionali – ciascuno dei due raggruppamenti macro-zonali esprimeva una formazione vincitrice che avrebbe sfidato l’altra in una doppia finale dallo scontato esito a favore di quella del Nord; dopo una sola stagione agonistica lo “scisma” calcistico terminò e ci fu la riunificazione con la Federazione Italiana del Giuoco del Calcio, che “riassorbì” le società dissidenti) venne deliberato che “nei giorni in cui hanno luogo gli incontri di propaganda indetti dalla P. C. [Presidenza della Commissione Tecnica] sono sospese nell’intera regione [Lazio] tutte le partite [di calcio], di qualsiasi genere siano”. Scendevano nella Capitale italiana e in altri centri squadroni quali il Genoa e la Pro Vercelli, che un mese dopo si sarebbero contesi con esito favorevole alle “Bianche Casacche” il titolo settentrionale (e di fatto nazionale), e il pubblico riconoscimento da parte delle istituzioni calcistiche centromeridionali dell’inferiorità rispetto al calcio settentrionale, a cui veniva richiesto di esercitare il proprio magistero presso realtà ancora poco sviluppate e competitive (il soprammenzionato giornale romano così iniziava l’articolo intitolato “Il Genoa a Roma”: La Lega del Sud, tra le altre concessioni, ha ottenuto dalla Confederazione Calcistica Italiana quella, sportivamente interessantissima, di alcune partite interregionali di propaganda, di grande utilità per lo sviluppo ed il progresso del foot-ball nell’Italia centromeridionale) deve far riflettere in un’ottica squisitamente storico calcistica su una questione che negli ultimi anni è stata riproposta con una prospettiva e delle interpretazioni differenti. “La Nuova Italia Sportiva” nella descrizione dell’incontro amichevole di lunedì 17 aprile 1922 (il giorno popolarmente chiamato “Pasquetta”) allo Stadio “Nazionale”, inaugurato undici anni prima nel quadro dei festeggiamenti per il Cinquantenario del Regno d’Italia e dodici anni dopo, con il nome di “Stadio del Partito Nazionale Fascista”, sede della Finalissima che con la vittoria per 2-1 dopo i tempi supplementari a spese della Cecoslovacchia avrebbe dato all’Italia il primo dei suoi quattro titoli mondiali, chiamò Maestri i giocatori del Genoa e Allievi quelli della Fortitudo Roma e si preoccupò di specificare che il 2-2 finale, con gli ospiti due volte in svantaggio (reti di Bianchi al 15′ del primo tempo e di Bramante al 23′ della ripresa grazie a due forti tiri, il primo scoccato, sugli sviluppi di un calcio di punizione, di interno destro da sedici metri e insaccatosi nell’angolino destro alto, e il secondo, a coronamento di una “triangolazione” con Alessandroni, rasoterra, su cui non fu impeccabile il portiere Giovanni “Ragno” De Prà) e capaci di recuperare con una doppietta di Celeste “Enrico” Sardi I (al 15′, su passaggio della mezzala destra, l’inglese William Thomas Garbutt – il “Mister” per antonomasia, allora trentanovenne, fino ad almeno il 1923 si dilettò a di scendere in campo – due giorni prima aveva giocato da terzino destro nella partita vinta a Pozzuoli 2-1 in rimonta contro la Puteolana, grazie alle reti, dopo quella immediata di Angelo Parodi per i locali, segnate dal “solito” Sardi I nel primo tempo e da Augusto Bergamino I nel secondo -, con un gran tiro di destro nell’angolino basso destro e al 38′ della ripresa con un colpo di testa – … la sua “specialità della casa” – su calcio d’angolo battuto da Edoardo “Dino” Mariani) “Il risultato pari non deve essere preso alla lettera come a significare che i campioni del Lazio [cioè i calciatori della Fortitudo, poi vincitori del raggruppamento centromeridionale e sconfitti 0-3 in casa e 2-5 in trasferta dalla Pro Vercelli nella doppia Finalissima nazionale he si disputò in due domeniche consecutive, l’11 e il 18 giugno 1922] valgano né più né meno che i campioni del Girone Settentrionale A [sic!; B]: esso, peraltro, può valere come prova che il progresso laziale – e con esso anche quello meridionale – è in pieno corso e che ad affrettarlo non c’è che assimilare presto quella tecnica e quella tattica che [sic!; di cui] ieri il Genoa allo Stadio “Nazionale” riusciva a fornire buona esibizione, e che, nonostante le non buone condizioni della squadra, colmavano interamente la differenza che li separava dai più freschi, più resistenti e, non di rado, più pronti fortitudiani.”Per la cronaca, il Genoa, per la prima volta impegnato nella Capitale, si schierò agli ordini dell’avvocato Giovanni Mauro di Milano, con De Prà in porta, Rinaldo Morchio e Renzo “il figlio di Dio” De Vecchi terzini, Bergamino I, Luigi “Luigin” Burlando, Ettore Leale mediani, Adevildo De Marchi II, Garbutt, l’italo-argentino Giovanni Battista Rebuffo, Sardi I e Mariani attaccanti (a Pozzuoli non avevano giocato Morchio e Rebuffo ed erano stati schierati Ottavio Barbieri, che si era infortunato, come mediano destro e Guido Aycard come mezzala destra, mentre Sardi I aveva fatto il centravanti e Bergamino I la mezzala sinistra). Tra gli ospiti si segnalava il promettente centromediano – all’epoca diciottenne – Attilio Ferraris IV, che su quello stesso terreno di gioco, schierato come mediano destro, avrebbe vinto con la Nazionale Italiana la già ricordata Coppa Rimet 1934.
La mattina di martedì 18 aprile 1922 i calciatori delle due squadre (per quanto riguarda il Genoa ovviamente anche Barbieri e Aycard) si recarono in Vaticano per un’udienza privata da Papa Pio XI, che da un paio di mesi aveva preso il posto del defunto Benedetto XV, finora l’ultimo pontefice genovese o ligure, e riceverne la benedizione; sennò. Un paio di mesi dopo, giovedì 15 giugno 1922, “La Nuova Italia Sportiva” tornò su quella circostanza con il gusto per l’anedottica tipico dell’epoca, realizzando per la sua rubrica Tra le quinte un articolo, con la citazione integrale del quale si conclude l’articolo commemorativo di un importante momento della storia del Genoa:
Questa [vicenda] non è recente, ma appartiene alla storia.
Dopo il risultato pari del loro incontro, Fortitudo [Roma] e Genoa, guidati da Fratel Damaso [uno dei quattro fondatori – gli altri erano Fratel Porfirio, Fratel Terenzio e Fratel Faustino, suoi confratelli di Nostra Signora della Misericordia – nel 1903 dell’Associazione del Sacro Cuore di Gesù in Borgo, che si riprometteva di riunire gli ex alunni della Scuola “Pio IX” in un ambiente religioso e sportivo, primo passo per la costituzione quattro anni dopo della Fortitudo Roma] si recarono di buon mattino al Vaticano, per far visita al Papa. Dopo [aver] girato in lungo e in largo ed aver ammirato una quantità di belle cose, dopo aver contemplato a lungo il [michelangiolesco] Padreterno della [Cappella] Sistina, che terribilmente separa [con l’autorità] d’un gesto i cattivi dai buoni, i giuocatori d’un giuoco ben accetto appo [cioè: presso] le Potestà celesti, purché eseguito con spirito di carità cristiana, furono messi in una delle private stanze per le quali doveva passare S. Santità. In un silenzio perfetto, i ventidue giovani seduti con le quarantaquattro mani sulle ginocchia, gli occhi fissi in mistiche visioni, aspettavano. L’accettazione durò un’ora dell’orologio [della Basilica] di San Pietro. All’ultimo rimbombo del solenne misuratore del tempo, una figura maestosa di porporato [cioè: cardinale] dallo strascico sorretto da un suo famigliare, e con seguito di aurorevoli prelati, nella penombra d’un corridoi ecco apparire ed avanzarsi.
Un brivido scosse gli aspettanti. “Il Papa!” e d’un colpo tutte le ginocchia furono al suolo.
Visibilmente soddisfatto di sì profondi onori, il Cardinale scorse i rosso-bleu [la Fortitudo aveva maglie rosse con colletto, bordi e fascia orizzontale sopra la Regione addominale di colore blu], suoi beniamini.
“Ma bravi, ma bravi: 2 a 2!” gridò loro con stentorea voce, e con entusiasmo paterno batteva una mano sulle spalle del paffuto Alessandroni. E Bergamino [I] con una coroncina [del Rosario] in mano e [R.] De Vecchi con un santino in tasca si domandavano dolenti: “Ma come, il Papa già sa la nostra… disgrazia!”.
S. Santità venne poco dopo, vestito di bianco. Ed era veramente informato della faccenda [cioè: il pareggio sorprendentemente ottenuto dalla Fortitudo Roma contro il Genoa], il “record-man” [della scalata] del Monte Rosa [mercoledì 31 luglio 1889 il trentaduenne Achille Ratti, futuro Papa Pio XI, fu il primo a raggiungere, ancorché con le spalle gravate dal peso di un ragazzo, la vetta della montagna valdostana, passando dalla parete orientale]. Parlò di alti doveri, di “mens sana in corpore sano” ed impartì la benedizione. Poi disparve.
Stefano Massa
(membro del Comitato Storico Scientifico del Museo della Storia del Genoa)
L’autore dell’articolo desidera ringraziare Marco Montaruli, un altro membro del Comitato Storico Scientifico del Museo della Storia del Genoa per la collaborazione offertagli nella ricerca dei dati.